Un’epoca irripetibile, una tecnica affascinante e modelli
che hanno fatto la storia: AJS, BSA, Norton, Triumph...
di Massimo Clarke
Per decenni le moto d’oltremanica sono state un riferimento fondamentale per tecnici e appassionati di tutto il mondo. Marchi come BSA e AJS sono da tempo nella leggenda, mentre altri come Triumph e Norton sono stati rilevati e, dopo qualche anno di latitanza, hanno poi ripreso la produzione.
I loro attuali modelli sono moderni e più che validi, però non hanno praticamente nulla da spartire (a parte talvolta l’estetica) con quelli di una volta.
In passato si parlava di “scuola inglese” con riferimento a una serie di schemi costruttivi e di soluzioni tecniche tipici delle case britanniche, che differenziavano le loro moto da quelle costruite negli altri paesi. Nell’anteguerra diversi costruttori italiani e tedeschi hanno esaminato con occhio molto attento tali realizzazioni e in effetti osservando certi loro modelli è possibile rilevare chiaramente quanto siano stati influenzati.
Negli anni Venti e Trenta, oltre a un ridotto numero di motori, dall’Inghilterra sono arrivati in Italia molti cambi, prodotti dalla Burman, dalla Albion e dalla Sturmey-Archer, che hanno equipaggiato svariate moto costruite da case come ad esempio le bolognesi MM e CM.
L’influenza della scuola inglese si è fatta sentire anche (e forse maggiormente) a livello di moto da competizione. Del resto le moto d’oltremanica andavano davvero forte e venivano largamente impiegate dai nostri piloti.
La stessa Scuderia Ferrari ha impiegato a suo tempo le Rudge. Tra il 1921 e il 1929 nella classe 500 il titolo italiano è stato conquistato ben sette volte in sella a monocilindriche inglesi. Nel Campionato Europeo (cioè nel mondiale di allora) tra il 1924 e il 1939 le case britanniche si sono imposte 10 volte nelle classi 250 e 500 e ben 12 volte nella 350. Insomma le loro moto vincevano molto ed effettivamente sotto molti aspetti indicavano la strada. C’è da dire che negli ultimi anni prima della guerra, quando si è iniziata a diffondere la sovralimentazione, la scena ha cominciato a essere dominata dalla BMW, dalla DKW e dalla Gilera, tutte dotate di compressore.
Negli anni Cinquanta, e anche in buona parte del decennio successivo, le moto britanniche sono state il sogno degli appassionati più sportivi. Però costavano molto e solo pochi benestanti potevano acquistarle.
Appartenevano a una categoria ben diversa dalle nostre, che erano di cilindrata assai più modesta. E poi, ad accrescere il fascino delle inglesi c’era una estetica che spesso era addirittura entusiasmante, oltre che di una straordinaria bellezza classica. Dal punto di vista della meccanica però sono rapidamente diventate quanto meno discutibili. Certo, al loro apparire erano sicuramente valide anche in quest’ottica ma gli schemi tecnici adottati non sono stati modificati per anni e anni e a un certo punto sono diventati prima vecchi e poi addirittura obsoleti.
Non c’è stata nessuna reale riprogettazione nel corso di oltre un quarto di secolo! Le modifiche via via apportate ai classici bicilindrici inglesi hanno interessato più che altro la cilindrata, che dagli originali 500 cm3 è passata a 650 o 750 cm3. Le potenze sono aumentate, grazie anche a maggiori rapporti di compressione e regimi di rotazione più elevati, arrivando addirittura a raddoppiare. Sono quindi cresciute le sollecitazioni alle quali erano sottoposti gli organi meccanici il che in diversi casi ha portato a problemi di affidabilità e a durate insoddisfacenti.
Sotto questo aspetto le BMW sono sempre state un’altra cosa e pure le grosse bicilindriche italiane apparse nella seconda metà degli anni Sessanta (ovvero Guzzi e Laverda) sono subito risultate di gran lunga superiori.
Per diverso tempo le inglesi sono state le uniche grosse cilindrate sportive in circolazione e chi voleva cavalli e prestazioni mozzafiato (per l’epoca) erano l’unica scelta possibile. L’industria inglese però non si è poi saputa evolvere, per adattarsi a una nuova realtà e a differenti esigenze.
Il colpo di grazie è arrivato dagli USA, principale mercato di esportazione, con l’ingresso delle case giapponesi nel settore delle grosse cilindrate. Le moto che offrivano erano moderne e in grado di fornire prestazioni formidabili. Niente perdite d’olio, vibrazioni ridotte e affidabilità totale. La componentistica era di un altro pianeta; quella inglese tutto sommato non era malaccio, ma il fatto che i motociclisti chiamassero principe delle tenebre il sig. Lucas, produttore degli omonimi impianti elettrici, dice qualcosa…
Salvo poche eccezioni, nelle moto giapponesi l’avviamento era elettrico e funzionava impeccabilmente, come tutto il resto. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio seguente le vendite delle case inglesi, per le quali già da tempo le cose non andavano più bene, sono crollate e rapidamente la stessa situazione si è ripetuta sui mercati europei. Non c’era più spazio per prodotti ricchi di fascino ma ormai da tempo obsoleti.
Gli unici costruttori che sono riusciti a opporsi allo strapotere orientale sono stati quelli italiani, con le grosse Guzzi e Laverda, e in seguito anche con le Ducati (raffinatissime e apprezzate dai veri intenditori ma prodotte in numeri piuttosto contenuti) e, per quanto riguarda le “medie”, con le Morini bicilindriche.
Un discorso a parte va fatto per la BMW, che negli anni Cinquanta e Sessanta ha prodotto grosse bicilindriche dalla tecnica raffinata a dalla eccellente qualità complessiva. La componentistica impiegata sulle sue moto era impeccabile (a cominciare dall’impianto elettrico), il motore era infaticabile e longevo e le vibrazioni e i trasudi di olio erano sconosciuti. A causa della trasmissione più rigida di quella a catena e della coppia di reazione (l’asse di rotazione dell’albero a gomiti era longitudinale e non trasversale, come nelle altre moto), all’epoca molti non consideravano però le bicilindriche tedesche meno adatte a un impiego sportivo.
Le moto inglesi, come le italiane, avevano il pedale del cambio a destra. Le tedesche e le giapponesi (che ad esse si erano largamente ispirate) lo avevano invece a sinistra. A far pendere l’ago della bilancia in favore di questa seconda soluzione è stato fondamentalmente il mercato americano, nel quale la presenza delle moto orientali da un certo punto in poi è diventata preponderante (e quella delle inglesi si è enormemente ridotta).
D’altro canto il pedale del freno veniva azionato con lo stesso piede con il quale si agisce su di esso nelle automobili e questo negli USA veniva considerato di importanza non trascurabile ai fini della sicurezza.
Per decenni, in passato, quasi tutti i motori sono stati a corsa lunga. Le eccezioni si contavano sulle dita di una mano e una di esse era costituita dalla Guzzi, le cui 500 monocilindriche hanno sempre avuto un alesaggio di 88 mm e una corsa di 82 mm.
Nel dopoguerra la situazione ha iniziato a cambiare e nella seconda metà degli anni Cinquanta i motori italiani di serie erano tutti a corsa corta o al massimo quadri. Quelli a corsa lunga (di poco…) erano oramai solo un paio. Tra le moto da corsa hanno continuato ad avere una corsa superiore all’alesaggio solo le quadricilindriche Gilera e MV, forse per contenete l’ingombro trasversale e consentire un adeguato passaggio di aria tra i cilindri.
In Inghilterra le cose sono andate diversamente e i motori a corsa lunga hanno continuato a dominare la scena anche negli anni Sessanta (tra i bicilindrici hanno fatto eccezione solo gli ultimi BSA 650 con cambio in blocco, nei quali l’alesaggio superava la corsa di 1 mm). La ragione di questo tenace attaccamento a misure così “vetuste” risale al 1911, quando la RAC decise che i veicoli sarebbero stati tassati in funzione della superficie totale dei pistoni dei loro motori.
Logico quindi che, qualunque fosse la cilindrata che volevano ottenere, da allora in poi le case abbiano cercato di adottare un alesaggio molto ridotto, in relazione alla corsa. Questo criterio di tassazione perverso è stato in vigore fino al 1947, ma i danni da esso causati hanno continuato a manifestarsi ancora per anni…
Da moto.it